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martedì 23 gennaio 2018

27 GENNAIO, LA GIORNATA DELLA MEMORIA

La Solidarietà Abruzzese Verso Gli Ebrei
Di Mario Setta

SULMONA - Sono  trascorsi  73 anni da quel 27 gennaio 1945, quando furono aperti i cancelli del lager di   Auschwitz. In quel giorno è stata aperta la porta dell’inferno e  l’umanità ha conosciuto il suo aspetto bestiale: lo sterminio (Shoah). Una delle pagine più nere della storia,  provocato da  un’ideologia assurda, pazzesca: l’antisemitismo. Hitler lo aveva scritto nel libro, Mein Kampf (1925) e Mussolini lo aveva codificato nel Manifesto del razzismo italiano (14 luglio 1938), dichiarando, tra i dieci punti : “Esiste una pura razza italiana; è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.  E subito dopo la pubblicazione del “manifesto”, arrivarono le leggi contro gli ebrei. Il fascismo si allineava al  nazismo.
Furono creati campi di internamento per ebrei italiani e stranieri. E molti di questi campi erano in Abruzzo: Chieti, Casoli, Città S. Angelo, Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Lama dei Peligni, Lanciano, Nereto, Notaresco, Tollo, Tortoreto, Tossicia. (cfr. Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista 1940-1943, Einaudi, Torino 2004). C’è una testimonianza poco conosciuta, ma sconvolgente, il diario di Maria Eisenstein, dal titolo L’internata numero 6,  sulla sua permanenza nel campo di Lanciano.  Una pagina  di vita reale, che sembra l’Incipit del romanzo “Il Processo” di Kafka: «La mattina del 17 giugno 1940, sette giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia e sei giorni dopo aver ricevuto la notizia della morte di mio padre in Polonia, alle sette e minuti, un ometto in borghese, mal vestito, si presentò a casa mia…».  
E’ vero, però,  che molti ebrei trovarono ospitalità e complicità da parte di molte famiglie abruzzesi,  che li accolsero e li sfamarono.  Ne sono testimonianza le memorie dei confinati e dei fuggiaschi, nascosti in Abruzzo: da Ginzburg a Finzi-Contini, da Fleischmann a Pirani, dalla famiglia  Modiano ai Fuà, fino a  Beniamino Sadun, che, con la madre, si nascose a Scanno, in compagnia dell’amico Carlo Azeglio Ciampi (cfr. “Il Sentiero della Libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi”, Laterza 2003).  Durante l’intervista, durata un intero pomeriggio, gentilmente concessami  nella sua abitazione a Roma, Beniamino Sadun, ingegnere ultraottantenne, al ricordo dell’accoglienza ricevuta a Scanno e nei paesi della Valle del Sagittario, non faceva altro che parlare e piangere. 
A Pizzoli era stato confinato Leone Ginzburg, che morirà nel carcere di Regina Coeli, il 5 febbraio 1944. All’età di 35 anni. La moglie, Natalia Ginzburg, nel romanzo autobiografico Lessico famigliare ha scritto: “Avremmo lasciato l’Abruzzo con dispiacere, come l’avevano lasciato con dispiacere Miranda e Alberto… Partii dal paese il primo di novembre… Mi venne in aiuto la gente del paese. Si concertarono e mi aiutarono tutti.”
A Navelli, si trovava la famiglia Fleischmann, con altri ebrei.  Uno dei componenti, allora ragazzo, ha raccontato la storia in un libro autobiografico dal titolo Un ragazzo ebreo nelle retrovie (1999), scrivendo: “I contadini qui sono meravigliosi. Sebbene nessuno abbia detto nulla, cominciano a portare forme di formaggio o pezzi di pane o uova, e presentano tutto con un fare imbarazzato, come se si vergognassero”.
Giovanni Finzi-Contini, componente della famiglia ebrea resa celebre dal romanzo di Bassani e dal film di Vittorio De Sica, Il giardino dei Finzi-Contini,  è spesso tornato a scrivere dei suoi rapporti con Atessa, la cittadina abruzzese che aiutò la sua famiglia. Nel libro Cara cugina” (2002), scrive: “Temo di amare questa terra… avverto una sorta di corrispondenza biologica, oserei dire animale,  tra la mia carne e le forme di questo paese sperduto: quasi che il vento gelido che a sera scende dalla lontana Maiella abbia per me ormai un significato personale e individuale troppo radicato e profondo: un legame come tra madre e figlio…” . Alla solidarietà dimostrata dalla gente, Finzi-Contini dà una sua risposta: “…un simile comportamento non può non derivare da consuetudini remote, da una sapiente tolleranza e da un superiore rispetto per l’uomo ormai connaturali a queste popolazioni…”.
Ma, il caso più emblematico è quello del giovane ebreo diciassettenne di Sulmona, Oscar Fuà.   Era stato nascosto, con tutta la famiglia, nelle case di amici sulmonesi. Si verificava a Sulmona ciò che avveniva ad Amsterdam, dove in un edificio di via Prinsengracht 263, viveva nella clandestinità la famiglia Frank. Il celeberrimo “Diario” di Anna Frank descrive l’isolamento e la paura di essere scoperti. Ma a differenza dei Frank che furono traditi e deportati nel lager di Bergen Belsen dove morirono, la famiglia Fuà non venne denunciata né scoperta. Anzi, con l’arrivo a Sulmona dei patrioti della Brigata Maiella, Oscar Fuà vi si arruola con l’obiettivo di contribuire alla liberazione d’Italia. Dopo pochi mesi, il 4 dicembre 1944, viene ucciso in battaglia a Brisighella, in provincia di Ravenna. Qualche tempo prima, passando da  Recanati, aveva acquistato una cartolina del paese con alcuni versi di Leopardi, indirizzandola alla sorella Giuseppina. Non era riuscito a spedirla. Gliela trovarono in tasca. Ai familiari furono riconsegnati: la cartolina non spedita,  un portafoglio, un pezzo di stoffa dei pantaloni.
(Cfr. “Terra di libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale” a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta)


AD AUSCHWITZ  OGGI E IERI
di Mario Setta

Ad Auschwitz, oggi, c’è gente. Tanta gente. Per ricordare. Allora, per morire.
“Non si riesce a credere nell’incredibile. Non è possibile che l’irreale diventi realtà” dice nel manoscritto, ritrovato su questo terreno, l’ebreo Zalmen Gradwoski.
Ad Auschwitz non si va in visita come ad un museo. Si va a condividere la tragica sorte di quei milioni di innocenti dei quali si calpestano ancora le ceneri. Annientati con le tecniche più impensabili, con le morti più atroci. Un gusto (!), talmente barbaro e disumano, da non poter nemmeno credere che si sia trattato di comportamenti tra esseri umani.

“Perché Signore hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?” ha gridato qui
Benedetto XVI. Ma la domanda andrebbe rivolta all’Uomo. Perché ad Auschwitz non sono morti ebrei, cattolici (p. Kolbe), zingari, testimoni di Geova, ecc. Sono morti gli uomini. Semplicemente e totalmente uomini. Non pochi, ma milioni. E i carnefici non hanno ucciso solo dei poveri sventurati. Hanno ucciso, anche e soprattutto, se stessi. Una guerra tra morti. Come tutte le guerre.

Qui è la tomba dell’umanità. Una tomba che attende la voce di Cristo: “Uomo, vieni fuori!”,
come disse, piangendo, sulla tomba dell’amico Lazzaro. Il grido della “resurrezione” dai morti
dell’intera umanità. Perché, perfino in questa “residenza della morte”,  c’è stato chi ha lottato
per la vita. Eccezioni. Ma ci sono state. Basta ricordare Witold Pilecki, fattosi volontariamente
arrestare dalla Gestapo per  raccontare al mondo gli orrori di Auschwitz.
Ne ha pubblicato una interessante e accurata  biografia, col titolo “Il volontario” (Laterza 2010), Marco Patricelli, storico e giornalista abruzzese. Ci sono anche  i cosiddetti “negazionisti”, che affermano come il genocidio non sia mai esistito e che la “soluzione finale” (endlösung) sia solo un “flatus vocis”. Ma il negazionismo  non è una   questione storiografica. Sembra piuttosto una questione patologica: una cecità.

Rudolf Höss, comandante del KL (/KonzentrationLager) di  Auschwitz, Oberstumbannführer delle SS, ha lasciato questa  descrizione agghiacciante, sconvolgente, terrificante:
« Lo sterminio ad Auschwitz avveniva nel modo seguente: gli ebrei destinati alla morte, uomini e donne separatamente, venivano condotti con la maggior calma possibile ai crematori. Negli spogliatoi i prigionieri del Sonderkommando li inducevano a spogliarsi, dicendo che li avevano portati lì per il bagno e la disinfestazione… Dopo la svestizione, gli ebrei entravano nelle camere a gas, provviste di docce  e di lavandini per dare meglio l’impressione di stanze da bagno… Quindi si chiudevano rapidamente le porte e il gas veniva immediatamente fatto uscire dagli appositi serbatoi e immesso, attraverso fori praticati nel soffitto, in un pozzo d’aerazione che li faceva arrivare fino al pavimento. Questo assicurava l’immediato diffondersi del gas. Attraverso gli spioncini praticati nelle porte si poteva osservare come le persone più vicine al pozzo d’aerazione cadessero morte all’istante. Si può dire che un terzo circa moriva subito. Gli altri cominciavano ad agitarsi, a urlare, a lottare in  cerca di aria, ma ben presto le grida si trasformavano in rantoli, e dopo pochi minuti tutti giacevano a terra. Non passavano venti minuti, e già più nessuno si muoveva. […] A questo punto gli uomini del Sonderkommando estraevano ai cadaveri i denti d’oro, e tagliavano i capelli alle donne. Poi i cadaveri venivano portati col montacarichi ai forni che intanto erano stati accesi. »